MERAVIGLIOSE BELLEZZE

Quattro bellissime dame del Rinascimento
Quattro bellissime canzoni del Novecento

UNO – Simonetta Cattanei Vespucci

LA CANZONE DEL SOLE

Sandro e Giuliano arrivarono sul poggio di S. Miniato in ritardo, come al solito.

La funzione era certamente già iniziata e il Magnifico si sarebbe arrabbiato.

Un orizzonte illimpidito d’azzurro s’alternava con nuvole scure: in quel luogo si aveva la strana impressione di trovarsi sospesi nel mezzo, tra cielo e terra.

Sotto, invece, i tetti rossi di Firenze s’illuminavano a intermittenza per i riflessi rubini di un pomeriggio stancato dal sole.

Simonetta Cattanei era seduta sul muro che lambiva il sagrato della chiesa.

LE BIONDE TRECCE, GLI OCCHI AZZURRI E POI null’altro: fu come se il contorno ambientale sparisse: ammaliati, i due uomini interruppero la loro camminata trafelata: scomparve il senso di colpa per il ritardo.

“Sandro, ci è appena apparsa Afrodite”, esclamò uno dei due.

La treccia si muoveva asimmetrica, nel vento.

Giuliano De’ Medici fu il primo a parlare: la rammentava bambina, prima che lasciasse la città. La ritrovava ora, assolutamente donna, purtroppo sposata al nobile Marco Vespucci.

Simonetta, d’altronde, non poteva dimenticare il giovane De’ Medici.

“Sei stupito? – gli chiese – Anche tu non sei più un ragazzo come io sono una donna, ora”.

Giuliano aveva un approccio diretto con tutti i cittadini di Firenze, quasi li conoscesse personalmente. Non era un afflato dettato dall’arrogante consapevolezza del potere, piuttosto un moto naturale, suscitato dall’abitudine della famiglia a parlare direttamente con gli sconosciuti.

Tuttavia, non rispose alla provocazione della ragazza; gli venne soltanto, rapido e fuggevole, un pensiero e, inattesa, una punta fugace di imprevista gelosia:

DOVE SEI STATA E COSA HAI FATTO MAI? UNA DONNA, DONNA DIMMI: COSA VUOL DIR SONO UNA DONNA ORMAI? MA QUANTE BRACCIA TI HANNO STRETTO TU LO SAI PER DIVENTAR QUEL CHE SEI?

Gli occhi eterei ed eterni, immensi, sembravano obbligarlo ad una rapida dichiarazione d’amore.

Le rammentò, invece, l’infanzia passata in Via Larga dove i rampolli delle famiglie più in vista raggiungevano l’abitazione dei Medici e schiamazzavano intorno alla fontana del giardino, disturbando i giovani artisti intenti al cesello e alla scultura:

MA TI RICORDI L’ACQUA VERDE E NOI? GLI SPRUZZI E LE TUE RISA…

Simonetta ricordava e, a sua volta, si ritrovò a pensare e sperare che qualcosa, di quel tempo passato, indugiasse ancora:

COS’E’ RIMASTO IN FONDO AGLI OCCHI TUOI ? LA FIAMMA E’ SPENTA O E’ ACCESA ?

Sandro, appena discosto, guardava la scena, intento più che a osservarli direttamente, a carpire i colori che il sole, le ombre ed il vento, rovesciavano sullo sfondo.

Simonetta si alzò.

Sembrava il sole quando sorge: SORGE PIANO MA POI, LA LUCE SI DIFFONDE TUTTO INTORNO A NOI.

Sandro vide lo sguardo di Simonetta posarsi fuggevole su Giuliano De’ Medici.

Fu un attimo e gli bastò.

Rapido, prese la sua matita rossa, chiese in prestito un cartone in maniera brusca ad un pittore sul luogo (a S. Miniato se ne trovavano sempre), e iniziò il disegno.

Giuliano era praticamente il padrone di Firenze ma lui, Alessandro Filipepi, con una matita ed un pennello in mano, diventava il padrone delle emozioni degli uomini.

Le avrebbe dispensate a suo piacimento. Lo sapeva e gli piaceva: l’arte gli restituiva un potere immenso.

Le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi quel viso d’angelo malizioso, quell’espressione d’adultera vergine, QUELL’INNOCENZA SULLE GOTE sue.

Fu tutto lì, l’incanto: in quell’attimo eterno che il pittore fissò nella sua anima, prima ancora che nella sua mente e sulla tavola. Fu lì che il miracolo fu sancito, fu lì che, per l’incanto dei posteri, nacque Venere.

Capita oggi allo stesso modo anche a noi, quasi per osmosi, quando incontriamo gli occhi di Simonetta, agli Uffizi: uno sguardo sensuale e languido che abbrividisce i sensi e, allo stesso tempo, sciacqua l’anima: SONO GLI OCCHI DI UNA DONNA ANCORA PIENI D’AMORE.

La Nascita di Venere è un dipinto a tempera su tela di lino (185 cm × 286 cm) di Sandro Botticelli.

Realizzata per la villa medicea di Castello, l’opera d’arte è attualmente conservata nella Galleria degli Uffizi a Firenze.

Opera iconica del Rinascimento italiano, assunta come simbolo della stessa Firenze e della sua arte, rappresenta una delle creazioni più elevate dell’estetica del pittore fiorentino, oltre che un ideale universale di bellezza femminile.

Simonetta Cattanei Vespucci, considerata, all’epoca, la più bella donna di Firenze, ebbe una relazione adultera e travolgente con Giuliano de’ Medici oltre ad fare da modella, più volte, per Sandro Filipepi, detto il Botticelli.

“La canzone del sole” potrebbe essere una composizione nata dall’estro poetico di Giuliano de’ Medici o di suo fratello Lorenzo che fu autore certo, invece, della “Canzone di Bacco” (“com’è bella giovinezza che si fugge tuttavia…”). Forse, invece, “La canzone del sole” fu semplicemente scritta da qualcun altro, chissà.

DUE – Lucrezia Buti

SIGNORA DELLE ORE SCURE

ACCAREZZAI L’IDEA DI LEI IN LONTANANZA e, vedendola, la scelsi per modella.

Ne parlai con il priore, con la badessa.

Mi chiedevano perché cercassi l’arte in luogo del Signore, cos’avesse da spartire, la pittura, con la religione.

Risposi che anche un frate, per diventare una buon religioso, deve leggere libri, ascoltare musica, apprezzare la pittura, la scultura, l’architettura.

Deve, insomma, nutrirsi di bellezza e buone vicende.

Sono queste arti, perlopiù, a ricordarci che non esiste mai una sola strada per un viaggio, una sola risposta ad una domanda!

Me lo avevano insegnato Firenze e la sua storia.

Priore e badessa non volevano acconsentire, ma la mia salute mentale rischiava di compromettersi, per i loro dinieghi.

Ne parlai allora con chi potesse aiutarmi: conosco Medici bravi, che hanno a cura il mio benessere…

Lucrezia mi fece da modella, per la prima volta, in un cortile del chiostro, all’alba.

Fantasticavo SOPRA IL SUO CORPO, PRESO AI PITTORI.

Aspettavo l’avvio, la luce giusta per iniziare.

In un attimo ebbe, SUGLI OCCHI, UN GUANTO DI LUCE.

“MA C’E’ UNA LAMPADA ACCESA ?” – mi chiese – “NO E’ SOLO IL SOLE”

Era il segnale, la traccia da cui partire: serve sempre un’intuizione per l’avvio: IL SENTIERO DOVE CAMMINO I MIEI SGUARDI.

Cominciai l’impresa.

Il mio turbamento, mentra la dipingevo, era grande ma, del resto, credo che si resti in vita per abitudine ma si diventi vivi solo per inquietudine.

E io volevo essere vivo.

Come immaginavo, m’innamorai presto di questa SIGNORA DELLE ORE SCURE.

La chiamai così, dato che la passione per lei mi costrinse a scavalcare il muro del suo convento, di notte, in una Prato buia e sinistra.

Ore scure che s’illuminavano di lei e rischiaravano la mia vita di frate intristito e la sua, di suora costretta.

La notte, in uno stato d’allerta e con il tempo contato, accarezzavo la sua pelle, SFUMATA DI OMBRE IN FUGA DALLA STANZA.

Contro tutte le difficoltà, contro ogni moralità.

Di giorno la potevo solo guardare e dipingere ma forse è propriamente questa, l’unica maniera con cui potevo raggiungerle l’anima.

E’ allora, mentre la dipingevo, che mi sembrava di riuscire a farla davvero e completamente mia: Lucrezia, in quei momenti diveniva “Lippina” un soprannome che vorrei, per lei, e presto, cognome.

Mi scioglievo alla vista DELLE SUE GUANCE PANE CALDO DELLA MATTINA: ne avevo fame.

DI QUEI MISTERI OLTRE LE CIGLIA, che non comprendevo.

DEI SUOI CAPELLI ALGHE NEL MARE E DEI SUOI OCCHI OLIVE DOLCI E MANDORLE AMARE.

DI QUELLE BRUNE, NOMADI DITA.

DI QUEL SUO VISO, DIAMANTE PURO.

DI QUELLA SCHIANA CHE LE TIENE L’ANIMA STRETTA AL SICURO finché appunto, riuscii a trasferirla in disegno.

TU NON MI DEVI SEMPRE CREDERE Lucrezia, MA SEMPRE CREDI IN ME: io ti rapirò, ti porterò via perché l’arte è come il Signore: compie miracoli.

NON VOGLIO CHE TU SIA UN OSTAGGIO, IN QUESTO DISPERATO VIAGGIO.

Sarà facile far divenire Lucrezia Buti, “La Lippina”, l’amata, l’amante la convivente, finanche la moglie, se mai vorrò, del frate impenitente e innamorato, Filippo Lippi.

La Madonna col Bambino e angeli detta Lippina è un’opera a tempera su tavola (92×63,5 cm) di Filippo Lippi, databile al 1465 circa e conservata agli Uffizi di Firenze.

Si tratta probabilmente del più noto dipinto di Fra’ Filippo Lippi, molto ammirato e straordinario punto di riferimento per tutte le Madonne col bambino successive . Il dipinto è importante anche perché è considerato una delle rare opere interamente autografe del maestro, e raffigura presumibilmente Lucrezia Buti, l’amante che Filippo rapì dal convento dove svolgeva la sua vocazione di monaca.

In seguito, grazie alle sue abilità straordinarie di pittore, Filippo ottenne la dispensa dal papa e convisse con l’amante: dall’unione nacque un figlio: Filippino Lippi, a sua volta artista straordinario e grande protagonista del Rinascimento fiorentino.

Quanto a “Signora delle ore scure” può essere che Filippo Lippi abbia scritto il componimento originale e che questo sia stato ripreso da un autore più recente.

Su questo forse ignoto autore, ad ogni modo, potremo passare tranquillamente “Oltre”.

TRE – Cecilia Gallerani

LA MIA RAGAZZA

Cecilia se ne andrà dal castello.

Non ho lacrime per rassegnarmi a questa tremenda disposizione del Moro.

E’ la mia ragazza segreta. E’ anche, tuttavia, l’amante del duca Ludovico: lo è da tempo, prima ancora che Sforza ed Estensi concordassero il matrimonio tra lo stesso Ludovico e Beatrice d’Este.

Ci baciammo un giorno, sul rivellino del castello, nascosti e sorpresi da un amore imprevisto e pericoloso.

Se Ludovico sapesse, per me sarebbe finita.

Bernardo Bellincioni, il poeta e Cecilia Gallerani, dama di corte, come Paolo e Francesca, come Lancillotto e Ginevra.

Cominciammo un AMORE COME IL VENTO, un AMORE DIVERTENTE CHE CORRE SUI PENSIERI DELLA GENTE.

Siamo sul filo del rasoio di un AMORE BALLERINO, Cecilia: TU CORRI SOPRA IL FILO ED IO CAMMINO.

Sono un trascurabile poeta di corte, uno che deve comporre solo per la grandezza del duca: eppure, con lei avevo trovato quello che da tempo cercavo, un’ispirazione colorata e plastica che smarrirò nuovamente non appena lei se ne andrà.

Sono sceso nella sala delle Balla, dove la mia dama conserva il furetto che le ho regalato: è un cucciolo speciale e Cecilia lo ama; sostiene che quando io non posso esserci, le sue carezze, quelle vere, vengono riservate per lui come fossero per me.

L’animaletto lenisce il suo dolore per la mia assenza, l’affetto della mia ragazza per lui è proiettato su me; è divenuto il tramite per una sorta di cifrario amoroso segreto e, anche in presenza del duca, Cecilia lo accarezza e lo vezzeggia in una intimità scandalosa che soltanto io intuisco.

Le porterò il furetto: se non possiamo alimentare questo amore, che almeno Cecilia possa stare con me tramite lui.

D’improvviso, dalla sala attigua delle Asse, Leonardo, il pittore, mi ha visto e mi ha chiamato presso il suo studio.

Aveva in mano, per combinazione, il ritratto di Cecilia che il Moro gli aveva commissionato. Sostiene che non sia finito.

Le sue lungaggini sono proverbiali e dovute in misura maggiore ai sentimenti che egli finisce per nutrire verso i suoi capolavori.

Così, quando deve licenziare l’opera, il suo turbamento è notevole. Sostiene di vivere, in quei momenti, una situazione assimilabile a quella di un amore che finisce e, per evitare il distacco, si dilunga a definire i dettagli, a modificare forme e colori. Anela all’ideale. Aspira alla perfezione. E non consegna al committente.

Quale che sia il motivo che lo spinge a non voler mai terminare le sue opere, anche questa mi pare bellissima.

L’originale e il quadro contemplano la stessa, eterea distanza che divide la realtà dal sogno.

Oddio, Cecilia, sono ammaliato anche dal tuo ritratto: LEGATO AL TUO SORRISO, CAMMINO SOPRA UN FUOCO.

Il Da Vinci non è solo un artista, è uno stregone: se guardo la sua opera mi colpisce una sorta di magia per cui comprendo la natura di quella donna, ne sento il profumo, ne intuisco persino la statura: dalla tavola emana un fluido stregato e si può intuire che LA MIA RAGAZZA E’ ALTA, E HA LUNGHI SGUARDI DURI, che tutti SI VOLTANO A GUARDARLA PER I SUOI OCCHI SCURI.

Il suo sguardo, anche nel dipinto, ti scava attraverso e ti guadagna l’anima.

Leonardo è adirato, scontroso come non capita spesso: la sua cantilena fiorentina, docile e musicale, nasconde solo un poco la rabbia:

“Il Moro – dice – pretende che adesso io aggiunga un ermellino, nel quadro. Cecilia dovrebbe reggerlo con amore: sostiene che sarà il suo regalo d’addio per sancire un sottinteso legame con lui, perché al duca, qualche tempo fa, è stato riconosciuto l’ordine dell’ermellino”.

“Nel suo intento si dovrà intendere che Madonna Gallerani tenga per sempre in braccio lui stesso, Ludovico Sforza, per sancire un legame simbolico ed eterno, tra i due.

“Ma dove lo trovo un ermellino, a Milano ? – continua il Vinci – E’ impossibile: e, anche se si trovasse, sarebbe difficilissimo da ammaestrare: è animale selvatico, accipicchia!”

Per un attimo, mi sono sentito crollare addosso il mondo: Cecilia immortalata in metaforica intimità con il Moro.

Non potevo tollerarlo!

Allora, ho guardato Leonardo e un pensiero è nato rapidissimo, in me: prima leggero, poi sempre più deflagrante: lo dovevo fare.

Cecilia amava me, non il Moro.

Doveva essere immortalata con me, non con lui.

E il duca, si sa, poteva distinguere a un miglio di distanza una bombarda prodotta a Venezia da una realizzata a Ferrara, ma non distingueva un cervo adulto da un daino.

Avrei rischiato, irragionevolmente: del resto LA MIA RAGAZZA E’ BELLA, BELLA CHE NON RAGIONO.

Chiesi al pittore di finire il lavoro e di intitolare il ritratto “La dama con l’ermellino”.

Poi, a togliere Leonardo da tutti gli impicci col Moro e a restituire lei a me, ci avrei pensato io.

La Dama con l’ermellino (o con il furetto?) è un dipinto a olio su tavola (54 ×40 cm) di Leonardo da Vinci, databile al 1488-1490.

La donna ritratta va quasi sicuramente identificata con Cecilia Gallerani.

L’ermellino è dipinto con bella vivacità. A un’analisi della morfologia dell’animale, esso appare però più simile ad un furetto.

Può darsi che Leonardo, sempre indagatore del dato naturale, si ispirasse a un animale catturato, allontanandosi dalla tradizione iconografica.

Del resto, l’ermellino è un animale selvatico, mordace e difficilmente ammaestrabile: sarebbe stato molto difficile poterlo utilizzare come modello, al contrario del furetto che è invece un animale domestico, oltre che relativamente semplice da trovare nelle campagne lombarde dell’epoca.

Si consideri, inoltre, che l’ermellino ha dimensioni molto più ridotte, superando raramente e comunque di poco i 30 cm, mentre il furetto, come nel dipinto, a occhio misura tra i 40 e i 60 cm.

Bernardo Bellincioni (Firenze, 25 agosto 1452 – Milano, 12 settembre 1492) è stato un poeta italiano.

Compose un sonetto sul ritratto di Cecilia Gallerani, colei che si ritiene rappresentata ne La dama con l’ermellino di Leonardo, “l’invidia della natura, che nel testo di Bellincioni appare più luminosa del sole e impossibile da ritrarre, secondo un topos tipicamente rinascimentale. Non risulta da alcuna fonte che i due avessero mai avuto una relazione amorosa e forse non l’ebbero.

Non compose certamente mai, invece, la canzone titolata “La mia ragazza” che pare testo redatto in posti ugualmente milanesi ma più sordidi: quelli dei cabaret e delle balere dove gli anziani si ritrovavano spesso a bere e giocare a carte. Per questo, si attribuisce la paternità della suddetta canzone ai famosi ambienti dei “Vecchioni”.

Quattro – Giulia Farnese

GIULIA

GIULIA, O MIA CARA,

Non eri realmente innamorata d’un uomo come Alessandro, vero?

Vorrei raccontarti ciò che si dice negli ambienti del palazzo vaticano: durante un banchetto, gli uomini mettevano a paragone, per le dabbenaggini che sortiscono dal vino, le grazie tue e quelle di Caterina.

Come in un confronto tra animali, capisci?

Vi paragonarono per la graziosità del volto, vincesti per quella degli occhi e del corpo.

E mentre si disquisiva, per ultimo, sulle bellezza della labbra, sai cosa disse, lui?

“Ma di che discutete voi, che non avete visto tutto il resto?”

Capisci in quale considerazione, ti teneva, Rodrigo?

Lasciava intendere di avere visto tutto di te, di Caterina: tutto di tutte.

Un duca non ti sarebbe bastato, non un semplice signore, no: addirittura un papa, l’Alessandro che tutti conoscevano come Rodrigo: Rodrigo Borgia.

Era un egoista, pretendeva che la tua immagine non venisse mai raffigurata.

Per questo, nessun artista ti ha mai rappresentata, finora: li diffidava di ritrarti, li minacciava.

Troppo geloso, Rodrigo, troppo prepotente. Non capiva dell’arte, non sapeva di te.

Adesso, però, la tua bellezza richiede giustizia e la pittura deve renderti immortale.

Parla con tuo fratello, il cardinale Farnese: fa’ cadere questa interdizione, GIULIA O MIA CARA TI PREGO SALVAMI TU.

Corri da me subito. NON LASCIARMI DA SOLO IN QUESTA NOTTE GELIDA; PER FAVORE: ho la febbre, NON VEDI DENTRO AI MIEI OCCHI LA TRISTEZZA CHE MI FULMINA? Li strabuzzo ad ogni ora come il mio personaggio indemoniato.

TU SEI LA MIA ANCORA, TU CHE SEI IL MIO ANGELO.

NON LASCIARMI IN MANO AGLI AVVOLTOI, ai potenti che pretendono d’impormi per modelle le loro brutte mogli o le loro sgraziate amanti da bordello.

TU CHE SEI L’UNICA, la sola che possa comparire da protagonista al centro della scena.

Nessun’altra, potrà. Sarà il tuo corpo flessuoso a torcersi nell’invocazione davanti a tutti, ad avvolgersi nell’abbraccio della mia luce e a farsi femmina con lei come non ha potuto, mai, invece, con me.

Fatti ritrarre: PER TE NON C’E’ NULLA CHE NON FAREI.

METTIMI ALLA PROVA E VEDRAI.

Per sempre tuo,

Raffaello.

La Trasfigurazione è un dipinto a tempera su tavola (410×279 cm) di Raffaello Sanzio, databile al 1518-1520 e conservato nella Pinacoteca vaticana.

È l’ultima opera eseguita dall’artista prima di morire, quando si dice che fosse già scosso dalle febbri.

La parte centrale, in basso, è occupata da un indemoniato e da una donna flessuosa, la cui carnale femminilità dona grande vigore realistico al quadro intero.

La modella fu presumibilmente Giulia Farnese, amante storica del papa Alessandro VI Borgia, celebrata per la sua proverbiale bellezza e detta inequivocabilmente “la Bella”.

Pare che, ad eccezione di questo, non ci siano altri ritratti che la riguardino perché esisteva una chiara interdizione del papa, fortemente geloso di lei.

Successivamente, quella stessa interdizione venne fatta propria dal fratello di Giulia, Alessandro Farnese (futuro Papa Paolo III), che non vedeva di buon occhio la celebrità della sorella in quanto ella incarnava le ragioni ”secolari” della sua ascesa al soglio cardinalizio.

Giulia era d’indole decisa e ritrosa, ma Raffaello riuscì a convincerla a posare per lui: non fu per nulla “semplice” e forse ci riuscì in un giorno in cui “Giulia” non aveva la “luna”.

Giulia, Semplice e Luna potrebbero del resto anche e certamente essere buoni titoli per canzoni di musica pop. Chissà.